L' amore ai tempi della diossina



Il presidio avrà inizio alle 8,30 in piazza Maria Immacolata. Io alle 7,30 sono già lì, senza tappetini e Arbre Magique. Non so perché lo faccio, né perché così presto, ma in cerca di una risposta comincio a vagare per la città morta che lentamente si risveglia. In piazza ci sono forze dell’ordine, fresche, aitanti e tirate a lucido. Poliziotti, carabinieri e indossatori di una divisa che non riconosco subito ma che dovrebbe far parte della collezione primavera-estate della finanza. La piazza unisce le due principali vie da passeggio di Taranto, di quelle che i giovani tarantini consumano avanti e indietro il sabato sera. Mi infilo in una delle due, ci sono solo spazzini e piccoli gruppetti di militari che cercano un bar senza troppa convinzione. Una signora si rivolge ad uno di questi  “Avete blindato la prefettura eh?” “Eh sì, signora, ordine pubblico” “E noi dove manifestiamo?” “Manifesta a casa sua signora”. Poi dev’essersi sentito un po’ in colpa per i modi bruschi e aggiunge “Noi siamo dalla parte dei buoni”. Quelle frasi buttate lì per indorare la pillola ma che finiscono solo per peggiorare la situazione, a meno che tu non sia Bruce Willis… I buoni? E quali? Quali sono per te i buoni, uomo in divisa che non riesce a mettersi un cazzo di berretto dritto in testa? Non ce l’ho con lui, penserei lo stesso della signora se avesse pronunciato quelle parole con qualcosa di obliquo in testa, invece la permanente le sta una favola. Ho fatto troppi metri per chiederglielo e mi lascio consolare dall’idea che nel caso in cui gli eventi dovessero volgere al peggio piomberà prontamente Batman a salvare tutti.
E l’Ilva? Chiamerà Alfred a bonificare.
Nelle intenzioni ci sarebbe dovuta essere una catena umana che avrebbe unito l’impianto siderurgico al tribunale, bloccato la città e dato il benvenuto ai ministri Passera e Clini. Il prefetto ha vietato il tutto e alla fine si è optato per un sobrio presidio nella piazza più chic della città. Gli operai prendono le distanze da politica e sindacati per poi incarnare la sintesi della sinistra degli ultimi vent’anni.
Ma mi trovo a moralizzare in chiave rivoluzionaria solo perché ho un bisogno impellente di andare in bagno, e mostro da subito tutti i miei limiti da corrispondente. Chissà se Tiziano Terzani, in Vietnam, tra una mina e l’altra, trovasse modo e tempo di evacuare. Arrivo rapidamente ad una conclusione, semplice ma efficace, i “giornalisti giornalisti” non cagano. Sono come i personaggi dei fumetti o dei cartoni animati. Sfido qualcuno a dimostrarmi il contrario, e mi porti il numero di “Tex Willer e il bagno occupato” oppure il saggio di Terzani “I peggiori cessi della Cambogia”.  
Faccio tutto il giro e mi avventuro al confine della “zona rossa”. La via della prefettura è transennata da entrambi gli sbocchi, da quello interno si affacciano carabinieri che masticano gomme e ferie scadute, sembrano animali in una gabbia da zoo, puntano il naso da destra a sinistra fingendo di studiare i passanti. Mi sposto sullo sbocco esterno, da quella parte è stato transennato un intero pezzo di lungomare. I corridori del venerdì mattina sono costretti a tornare indietro interrompendo il loro classico percorso. Penso sia una seccatura ampiamente sottovalutata. Alzo lo sguardo verso i furgoni dei network televisivi, inviate che si aggiustano il trucco, ripassano appunti, provano con i cameraman l’inquadratura migliore. Davanti a me vedo sfilare due ragazze in minigonna, puntano i poliziotti che sono di guardia al blocco. Vogliono passare, una delle due dice di essere della Rai, le guardo le ginocchia, riflesso incondizionato. I poliziotti scuotono la testa e le fissano le tette, tutti, contemporaneamente. Sembrano dissuase, le tette, non loro che mostrano documenti d’identità e tesserini vari, ma non c’è niente da fare. Tornano indietro. Invece si avvicina  a passo deciso un signore sulla cinquantina, prova a scavalcare la transenna. I militari devono disfarsi in fretta dei pensieri fatti sulle presunte giornaliste per fermarlo. Lui sbraita, urla in dialetto, dice di abitare a due passi da lì, ha una busta di medicinali in mano che agita sdegnato. Ma porco Giuda, fatelo passare, potrebbe essere importante, potrebbe avere con sé qualcosa di fondamentale, che so io, dei preservativi. Ma con un accento di un altro meridione riescono a convincere anche lui. Sono lì ad osservare da un po’ e un tizio in borghese con un grado superiore scritto in fronte mi fa un cenno, mi avvicino, “Sei un giornalista?”. Ora me l’hanno chiesto, posso tornare a casa contento. Gli concedo il più falso dei miei sorrisi “No, guardi, io cago”. L’ho spiazzato, mi guarda prima con ribrezzo e poi annuisce con un pizzico di comprensione. O ha il mio stesso problema o ha colto in un attimo il mio ragionamento precedente. Opto per la prima.
Sono le otto e mezza, torno in piazza. Comincia a riempirsi, ci sono gli operai “liberi e pensanti” facilmente distinguibili da una pettorina verde. Pettorine indossate, sfilate e scambiate. Sono un po’ confuso, ma credo sia pretattica, non vorranno far capire la formazione titolare. I primi striscioni vengono srotolati, rigorosamente in caratteri rossoblu. Il più grande viene apposto dietro il piccolo palco, recita: “Sì ai diritti, no ai ricatti: occupazione, salute, reddito, ambiente”. È sfocato quel che basta da mettere in crisi il mio astigmatismo latente, mi chiedo se in seguito verranno distribuiti gli occhiali appositi: “Taranto contro l’inquinamento, la prima lotta in 3D!”.
Prima di elaborare altre minchiate, la mia attenzione viene centrifugata da un ragazzo che intervista un operaio. Ha un taccuino e già mi sta simpatico, e poi somiglia al Grande Lebowski ma con quindici anni in meno. Mi avvicino. “Tu credi in Dio?”. No, non l’ha detto. L’operaio “Beh, diciamo di sì”. “Secondo te che ruolo dovrebbe ricoprire la chiesa di fronte a queste problematiche?”. Cristo! Via via.
Corro a prendere una lattina di the al limone che magari è astringente.
La linguetta dice Q, questa volta son sicuro, Terzani il giochetto delle lettere con le lattine lo faceva.
Faccio un rapido controllo demografico, il pubblico è vario, comprende tutte le fasce d'età. Si sprecano le maglie dedicate al Taranto Calcio, la cartellonistica stradale “Stop inquinamento” e… davanti a me, seduta da sola, c’è una ragazza con una maglietta dipinta a mano.  Leggo solo il retro: “Anche io voglio crescere un figlio a Taranto”. Avrà vent’anni e io devo fare uno sforzo immane per proiettarmi alla pescheria di Cesarino a scambiare tutta la vile irriverenza per un paio di spigole di tenerezza. Operazione che non riesce del tutto. E mentre penso a quel docile cucciolo di donna che affitta l’utero in pubblica piazza, un sole mi acceca. È il contrappasso dantesco, uno schiaffo di un genitore quando credi di non aver fatto nulla, la navicella aliena che viene a prevelarmi per fare esperimenti sulla mia indifferenza. A pochi metri da me c’è la ragazza più bella che abbia mai visto. Non so cosa ci fosse dentro quel the, ma a questo punto non credo neanche di averlo bevuto perché la gola si è seccata di schianto. Ha i capelli corti, un ciuffo castano che danza con la gravità, occhi azzurri come doveva essere il Mar Piccolo solo un secolo fa, lineamenti gentili ma decisi, spalle larghe da nuotatrice e un sorriso per cui Dante sarebbe rapidamente ridisceso all’Inferno. Vestita semplice, di un semplice che annichilisce, maglia nera, zainetto, jeans corti e scarpe… Scarpe? Cosa se ne fa delle scarpe una così? Una così non tocca neanche terra, di sicuro non quella che sto toccando anch’io. Lei levita sorridendo alle amiche, senza fargli pesare di non essere mortale. Ha un' aria spigliata, emana la poesia di un piatto di tubetti con le cozze, ma anche la concretezza di una puccia con gli uccelletti. Io, invece, è come se avessi bevuto due litri di Primitivo di Manduria e il ponte girevole mi si fosse chiuso sullo sterno.
Ho ancora la lattina in mano e nessun nome che inizi per Q in mente.
Vado a gettarla, devo allontanarmi, non voglio sentire la sua voce, ho paura possa rovinare tutto.
Quando mi volto è ancora lì, sono sorpreso, ed è in quel momento che parte la musica. Non sono violini, banali... Sono fiati, e soprattutto non sono solo nella mia testa. Questa è "Nuntereggae più" di Rino Gaetano. In piazza fa il suo ingresso un carrettino con gli altoparlanti, e al seguito una fiumana di gente con dei cartelli. Mi entusiasmo, la piazza intera batte le mani a tempo di musica, il carrettino fa il giro e gli operai montano sul palco.
È una bella trovata.
Poi tutto passa leggero, anche se leggero non è.
La rabbia di chi ha bisogno di lavorare ma sa di lavorare per la morte, le lacrime dei pediatri che han visto morire bambini, il miticoltore che parla di economie "eco-combattibili" e strappa qualche sorriso. La manifestazione che parte colorata ma che deve fermarsi dopo poche centinaia di metri di fronte all'anti-sommossa. Una bambina che si avvicina ad un poliziotto, gli dice che è bellissimo e lui sorride e ringrazia.
Tutti appunti mentali che mi impegno a memorizzare per non pensare che nella confusione l'ho persa. Ritrovo Giovanni, invece, un sindacalista amico di famiglia. Una vita in fabbrica dove ha lasciato un dito della mano, come Gian Maria Volontè in "La classe operaia va in paradiso". Gli argomenti preferiti di Giovanni sono due: la campagna e di quando ha mandato a fanculo Bersani in un incontro a Roma. Mi parla della necessità di dialogo, che è giusto protestare ed essere indipendenti, ma che bisogna trovare una sponda politica altrimenti nessuno ti ascolta.
E neanche io ti ascolto, Giovanni, io ho ancora i fiati in testa.
Dubito che Gabriel García Márquez sia mai passato da queste parti, ma i "cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese" sono più o meno quelli in cui l'amore per Taranto è stato soffocato dalle polveri.



Andrea McManaman

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