Storia di un orso.


L’orso si chiamava Demetrio Pagliari. Aveva trascorso diversi anni in Germania lavorando come impresario per una ditta che riforniva i medici di apparecchiature per gli impianti dentali. L’orso, o meglio, la pelliccia da orso, era il motivo del suo ritorno in Italia. Un certo Tintori gli aveva chiesto di comprarla, come favore per poter tirare su qualche marco. Dopo la fine della guerra, Tintori era rimasto in Germania a fare la mascotte fuori dalle vetrine di alcuni negozi. Diceva che di pellicce di orso così belle non se ne trovavano. La testa e il muso non avevano neanche un graffio, i fori per gli occhi erano stati nascosti con molta abilità e si riusciva a respirare senza fare fatica. Demetrio, che era uno sempre in giro con la sua borsa di rappresentanza, non sapeva cosa farsene di quell’orso, alle insistenze di Tintori diceva: “Che me ne faccio di un costume da orso? Dove lo metto?”. Tintori gli stava chiedendo un favore, voleva andarsene via da quel paese, voleva mettere da parte i soldi per tornare a casa dalla famiglia. 

Pagliari aveva già fatto dei favori per alcuni connazionali, aiutandoli a trovare lavoro in qualche ristorante o registrandoli negli uffici per le liste di collocamento. Da una signora partita dalle Marche aveva comprato delle enciclopedie, riempiendo un intero scaffale della libreria che teneva in casa. La pelliccia d’orso gli avrebbe occupato mezzo armadio e la testa avrebbe dovuto inchiodarla a una parete, trasformando il monolocale al quarto piano nella baita di un cacciatore artico. “Tu fai così perché non l’hai provata,” diceva Tintori prendendo Pagliari per un braccio, “te la faccio provare, ti ci infili dentro e mi dici per curiosità come ti sembra. Per curiosità, che ti costa?” 

Tintori era arrivato con una valigia e una sacca a tracolla: l’orso era lì, nell’appartamento di Pagliari, per essere indossato. Il rappresentante si era lasciato convincere. Se avesse soddisfatto la curiosità di Tintori, mostrandogli la mancanza di spazio nella casa, sarebbe stato molto più facile chiudere lì quella discussione. Per l’occasione, Pagliari aveva occupato tutte le stampelle del suo armadio con maglioni e camicie che di solito teneva nei due cassetti sotto al comodino. “Sta comodo comodo in una valigia”, diceva Tintori, “apri la sacca, non ti spaventare. Sembra vivo per quanto è fatto bene, ma t’assicuro che non morde.” 

Pagliari non era mica spaventato, lasciò comunque che fosse Tintori a trafficare con quella roba. Disse al rappresentante di togliersi la giacca e i pantaloni, poteva tenere le scarpe e una camicia comoda, magari vecchia. A Pagliari la cosa non diede problemi e non si vergognò di restare in mutande. La chiusura era sulla schiena, ci voleva per forza una seconda persona che tirasse su la cerniera. Le mani di Pagliari erano diventate delle zampe senza unghie, tutto il corpo come dentro un sacco a pelo. “Ma uno specchio non ce l’hai?” Questa domanda diede al padrone di casa la scusa per aprire l’armadio, dove lo specchio era fissato a un’anta. “Vedi che c’ho tutto pieno? Dove me la metto ’sta sorta di pelliccia?” Con le zampe ancora aperte, Pagliari aveva visto dallo specchio che Tintori stava calando la testa dell’orso sulla sua. Per non tradire un piccolo spavento che gli era preso vedendo le zanne dell’orso riflesse davanti a sé, aveva cominciato a ridere. E mentre Tintori gli faceva passare la maschera sulle orecchie, Pagliari rideva più forte, nel buio e nel caldo in cui si stava immergendo. 

Guardando quella bestia libera nel suo appartamento, Pagliari aveva iniziato a fare delle mosse e dei versi. “Mica fanno così gli orsi, quelli sono gli orangotanghi, l’orso mica fa così!” Tintori lo rimproverava e lo scuoteva, Pagliari faceva delle giravolte e cercava di accontentare il nuovo padrone. Si piegò a quattro zampe per cercare di imitare una posa verosimile, ma la testa non permetteva nessun movimento verso l’alto. Chiese solo una volta a Tintori di aiutarlo a rialzarsi, prima di sentire un fortissimo dolore in testa e cadere svenuto sul pavimento.

Si svegliò che era già buio, Tintori s’era portato via tutto, pure i vestiti, costringendolo a uscire sul pianerottolo con addosso la pelliccia. La botta gliel’aveva data con un volume dell’enciclopedia, tomo A-C.

Pagliari ci aveva rimuginato non poco, prima di accettare l’eredità di quell’orso.

Sembrava, a Demetrio Pagliari, che il ritorno a casa fosse segnato già da tempo. Qualcuno aveva esaudito una richiesta mai espressa a parole, un desiderio nato e cresciuto solo nei suoi pensieri. Quel qualcuno era stato Tintori, chissà se era davvero tornato anche lui in Italia. 

Era già primavera sul piazzale della stazione di Ravenna, Demetrio Pagliari percorse la strada verso la casa dei suoi genitori, dove il fratello era rimasto a vivere. Aveva esaurito la storia di quel ritorno durante l’ora di cena, cercando di intuire dallo sguardo del fratello quanto a lungo avrebbe gradito la sua compagnia. “Farò le mie cose senza darti disturbo, devo solo riadattarmi. Augusto lavora ancora lì dai preti? E allora chiedo a lui, mi deve ancora un sacco di favori, sicuro che mi prende.” Augusto era un amico di scuola di Demetrio, ma di lavoro da offrire proprio non ne aveva. 

Ci moriva di caldo. Quando era ora di pranzo si chiudeva nella cabina del lido, con una cordicella tirava giù la cerniera e sfilava la pelliccia lasciandola cadere per terra impregnata di sudore. Su tutto il corpo gli erano comparse delle macchie rosse, la pelle si era impregnata dell’odore di muffa che la pelliccia si portava dietro. In una mattina di spiaggia poco affollata, riusciva a comparire in almeno trenta fotografie. Doveva camminare lungo la spiaggia per farsi vedere dai nuovi villeggianti e attirare i bambini. 

Assieme a lui veniva il ragazzo del bar Stefanini, Lello, che aveva una passione per le macchine fotografiche e stampava i rullini da solo. Non erano solo i bambini, certe volte anche le signore del lido sghignazzavano di fronte alle pose dell’orso. Demetrio le intratteneva mentre parlavano sedute sotto gli ombrelloni, stappava le bottigliette usando i denti del muso finto, giocava con la sabbia provocando i cani che gli abbaiavano contro. Una combriccola di villeggianti austriaci aveva raccontato a Demetrio che da loro c’erano molti orsi che si facevano fotografare, però preferivano intrattenere i turisti della montagna. Un orso sulla spiaggia non l’avevano mai visto. 


La stagione dell’orso sulla spiaggia era durata solo un’estate. Alla fine di settembre Demetrio aveva lasciato la casa del fratello per tornare in Germania, dove poi sarebbe rimasto per tutta la vita. 

La storia di Pagliari me l’ha raccontata Lello, quello del bar Stefanini. Dietro alla foto c’è scritto “Pietro e Giovanni,  28 giugno 1963.” A Lello è rimasta solo questa, probabilmente i due bimbi erano ripartiti con la famiglia il giorno dopo, dimenticandosi di passare al bar per ritirarla. 

“Per fortuna facevamo sempre pagare in anticipo,” mi ha detto Lello quando me l’ha regalata. 











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